Recensione "La ragazza senza nome"

“La ragazza senza nome” di Jean-Pierre e Luc Dardenne


Non si esaurisce l’interesse dei due registi belgi per le intricate situazioni dove vengono operate delle scelte di coscienza. I meccanismi interiori delle possibili opzioni morali e i risvolti psico-sociali conseguenti, emergono fortemente anche nella loro pellicola: “La ragazza senza nome”. E’ già il terzo film - dopo “Il ragazzo con la bicicletta” e “Due giorni e una notte” – (opere da vedere) che, in modo scarno e crudo, indirizzano la loro riflessione su ciò che sarebbe giusto fare in determinati contesti dal risvolto etico. Questa volta la coscienza dei personaggi è sollecitata e turbata da un volto difficile da dimenticare: una donna spaventata e sconosciuta, ripresa dal fermo immagine di un video-citofono.
Tutto ruota attorno alla giovane dottoressa Jenny Davin. Scrupolosa, competente e, soprattutto, con un lucroso avvenire già pianificato in uno studio avviato, svolge l’ultima sera come sostituta di un medico di base, a “tariffa minima”. Attardata e piccata per una discussione deontologica avuta con un suo tirocinante, si rifiuta di aprire a chi suona oltre il tempo limite di apertura dell’ambulatorio. Il giorno successivo però la ragazza che era alla porta viene trovata uccisa dall’altra parte della strada. Nessuno sa nulla e nessuno rivendica il cadavere di questa ragazza senza nome. Diversi personaggi sono schiavi di un silenzio colpevole che diventa, a un certo punto, quasi assordante. 
La dottoressa che vanta la (finta) saggezza di essere più forte dei propri sentimenti, per una giusta distanza con i pazienti, viene così presa da un vortice di ripensamenti che metterà sottosopra il castello fittizio dei suoi principi. Dovrà trovare un nome a questa donna, della cui morte si sente anche in parte responsabile. Questo movimento interiore, che si trasforma in azione, innescherà un processo di liberazione contagioso.
Non si può seppellire un corpo senza identità come se non avesse avuto una storia e una vita. Così in modo simbolico più ampio, nel film, vediamo che nessuno riesce a seppellire i propri fantasmi senza prima averli riconosciuti e affrontati come tali. Questi fantasmi sono paure sempre originate da una colpa. La paura di essere giudicati, di essere disprezzati e perdere la stima dei famigliari, di essere abbandonati, di rivivere la sofferenza attraverso lo specchio dell’altro. Tutti fanno un percorso difficile che passa dal tentativo di rimozione, alla vergogna e alla dolorosa accettazione della realtà.
Questo è certamente un film sulla coscienza. O forse, sul vero e costruttivo rapporto tra la coscienza e la libertà.  “La verità ci renderà liberi”, dice la Bibbia. I fratelli Dardenne sembrano dirci che la verità, anche quando fa male, rende libera la coscienza di ritrovare una pace interiore. Si riflette così sul fatto che, anche quando una cosa è corretta non è automaticamente giusta e anche quando è giusta non è necessariamente buona e misericordiosa.
La mano dei registi nelle riprese è fredda e tagliente, rafforzata dai colori cerulei dell’ambiente fiammingo invernale. Non c’è una nota musicale. La colonna sonora è formata dai rumori della vita. Sono suoni urbani, metallici, disarmoniosi e disarmonici: squilli del telefono e del citofono, uso degli oggetti e il sottofondo di un traffico veicolare che accompagna anche i titoli di coda.
La dottoressa Daven manterrà sempre una formale distanza fisica dai corpi che sta curando. Compie competenti e precisi movimenti accompagnati però da una fragile distanza emotiva di protezione. Solo alla fine chiederà timidamente un segno vero di contatto affettivo: un abbraccio di liberante empatia, mentre fuori dall’ambulatorio la vita continua ad avere la voce fastidiosa del traffico cittadino.


Enzo Riccò


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